Marvelit presents:
Invasori:
Revival #6
We are the roots of your country… IV
Ridd intravide gli Iroquois attraverso il fumo e mai, come allora,
la loro sagoma priva di spigoli gli sembrò tanto bella e desiderabile. Si
trattava di tenere duro ancora per pochi metri e già i sopravvissuti
cominciavano a confluire insieme verso il comune obbiettivo. Quello era il
momento più pericoloso di tutti. Qualcuno, impaurito, avrebbe potuto aprire il
fuoco sugli amici non riconoscendoli. I charlie potevano tentare un attacco
proprio in quel momento, cogliendoli di sorpresa e togliendoli di mezzo tutti.
Sotto i loro piedi si snodava un intrico di gallerie sotterranee, sostenute da
travi marcescenti e ricoperte di muschio, attraverso le quali le squadre del
nemico si muovevano infaticabili avanti ed indietro, pronte a sbucare da
qualche apertura nel terreno abilmente mimetizzata. Strinse istintivamente la
pistola. Non sentiva da un po’ i passi di Bucky. Nel fragore della battaglia,
tra gli spari e i rumori dei razzi, aveva imparato a distinguere quei passi che
cozzavano leggeri contro la fanghiglia in terra. Era una questione di
necessità, visto il pericolo rappresentato per lui e per il ragazzo. Ecco,
pensò, quello era il momento della resa dei conti. Purtroppo Joseph Ridd forse
era in ritardo e l’altro, rapido, l’avrebbe anticipato uccidendolo a (bruciapelo.
“Coraggio soldato, resisti.” Tentò di incoraggiare Leonard
Klencher che piagnucolava isterico mentre veniva praticamente trascinato
attraverso la zona paludosa.
“Cosa ne sarà di me?” Chiese in
fine con un filo di voce. La domanda era carica di disperazione e, al contempo,
di amara rassegnazione. Gli insetti danzavano veloci intorno a loro ma da un
po’, aveva notato Ridd, avevano smesso di pungerlo fastidiosamente. C’era
qualcosa nel ragazzo che li teneva lontani, ne era certo.
“Te ne tornerai a casa, ecco cosa ne sarà di te.” Lo disse pacato,
con il sorriso sulle labbra, ‘si da tentare di calmarlo ed infondergli fiducia.
“Io non ho una casa. Non sono americano. Sono un ospite del tuo
paese. Sono un’arma per loro e adesso sono un’arma difettosa, lo capisci
questo?”
“Di dove sei?” Ignorò volutamente quell’ultima affermazione.
Doveva sviare la sua attenzione da quell’argomento o altrimenti, capì, sarebbe
sopraggiunta una crisi isterica che in quel momento poteva essere fatale ad
entrambi. I piedi erano talmente mal ridotti che non li sentiva più e il gelo
della notte al confine tra Vietnam e Cambogia si infiltrava attraverso i buchi
dei suoi anfibi impietoso.
Aveva l’interno coscia
dolorosamente irritato e muoversi era una vera e propria tortura. Eppure
sentiva che era suo dovere non mollare, fosse solo per tutti i suoi amici
morti. Doveva sopravvivere e doveva salvare quel poveretto, a qualsiasi costo.
Con la mente ricordò quando si chiedeva se avrebbe provato paura in Vietnam.
Nessuno che non abbia mai combattuto vivendo la drammatica esperienza del campo
di battaglia avrebbe mai potuto dare una risposta. Non era semplice paura.
Le regole della quotidianità erano sospese e ciò che si era stati
a casa, cessava di essere. Non importavano più le motivazioni personali,
politiche, le questioni d’onore. L’unica cosa ad avere un valore era la voglia
di continuare a vivere. Il tanfo di bruciato era lancinante. Pareva volesse strappare
via gli ultimi brani di raziocinio dalla sua mente martoriata ma resisteva
stoico mentre ora udiva chiaramente il ronzio degli elicotteri, i cavalli del
cielo che li avrebbero riportati a casa.
“Germania…” Disse in un sussurro appena Leonard, rispondendo alla
sua domanda di prima.
Ridd sorrise e, quasi immediatamente, il ginocchio cedette, come
se la gamba gli fosse improvvisamente morta facendolo finire faccia in avanti.
Leo rotolò, sbalzato da quella caduta, qualche metro più avanti e Bucky ghignò
selvaggio, mentre si preparava a lanciare l’altro pugnale, quello che avrebbe
tolto la vita al mutante.
Ormai Tom ne era più che certo: la morte era lì, davanti a lui;
torreggiava, come se nascesse dal fango della palude, ed era avvolta nei colori
della sua bandiera.
“Anche se non ti uccidessi, da come sei combinato, non vivrai
comunque a lungo.” Fece quella sagoma sempre meno distinta, talmente confusa
con lo sfondo che ora pareva volerla inghiottire, da fargli dubitare si
trattasse qualcosa di reale. Forse era solo un sogno. Uno degli incubi che lo
tormentavano da così tanto tempo da fargli pensare che non avesse mai
conosciuto altri sogni che quelli.
“Sei tu?” Chiese in preda alla confusione. Capitan America sollevò
un sopracciglio, sorpreso per quella domanda. Non stava fingendo. Era lì,
davanti a lui, spezzato nel fisico e nella mente. L’eroico Toro della Seconda
Guerra Mondiale, la micidiale Torcia, erano spariti definitivamente. Rimaneva
solo un uomo arrivato allo stadio terminale di una lunga agonia. Lo stress
sopportato, aveva semplicemente accelerato i tempi.
“Eri un grande combattente. Anche se hai tradito meriti comunque
il mio rispetto. Ti ucciderò senza farti soffrire e dirò ai nostri capi che sei
morto in azione, così che la tua memoria non sia infangata.” Pronunciò con
grande affetto e comprensione quelle parole. Si preparò a scagliare lo scudo
verso il collo di Thomas, ponendo così fine una volta per tutte alle sue
sofferenze.
La scarica d’energia cozzò contro lo scudo mandandolo a
conficcarsi nella corteccia marcescente di un vecchio albero.
Ivanhoe lo guardava da sopra un’alta roccia, la mano ancora
protesa, l’aria intorno carica d’una sottile luminescenza azzurrina e
smeraldina che persistette per pochi secondi.
“Così, alla fine, hai deciso di tradire anche tu.” Disse
sprezzante Capitan America.
“Tradire? Non credo. Non sono mai stato fedele, né a te, né al tuo
governo.” Ribatté tranquillo l’altro.
“Dimenticavo: sei un fedele suddito di sua maestà britannica!”
“Sono un uomo con una coscienza. Avete deciso di far fuori un
intero villaggio e questo, francamente, mi sembra decisamente esagerato. Siete
soldati, e questo lo capisco. Lo sono anche io. Come voi ho ucciso diversi
uomini e spesso anche di sorpresa, quando non potevano difendersi. L’ho fatto
perché necessario. Non posso tollerare però una morte inutile ed evitabile.
Figuriamoci se posso massacrare decine di donne e bambini indifesi. No, mi
dispiace Capitano ma non posso farlo.
“Quella gente potrebbe averci visto. Quella gente potrebbe venire
interrogata e dare informazioni importanti. La loro morte era necessaria e mi
meraviglio che tu non lo capisca.”
“Mi meraviglio che tu possa solo pensare che io capisca te o le
tue assurde motivazioni. Del resto, eri un maniaco prima di divenire quello
sei. L’averti potenziato ti ha semplicemente reso ancora più folle.”
Capitan America lo scrutò, immobile mentre un lieve vento
fischiava tra i canneti poco distanti, arrivando sino a solleticargli
l’orecchio sinistro.
“Tu che cosa sai di me??” La voce tradiva rabbia, una rabbia che
da tempo veniva covata dentro, silenziosa, ubbidiente ma sempre terribilmente
pericolosa.
“L’MI6 sa molte cose sul tuo conto. I tuoi connazionali hanno
compiuto un’azione spregevole ad usare un pluriomicida cannibale come te per il
loro esperimento di potenziamento. Vedi, non è te che disprezzo ma loro. Tu sei
solo un povero pazzo che sarebbe dovuto rimanere rinchiuso in qualche manicomio
criminale o, al più, fritto sulla sedia elettrica. Però loro sapevano cosa
stavano facendo. Sapevano chi stavano potenziando.”
“Si. Lo sapevano molto bene ed è per questo che mi hanno scelto,
idiota.” Alcuni uccelli si levarono in volo, spaventati dalla risata di Capitan
America. Era da molto tempo che la sua gola non si produceva in quel suono
gorgogliante, demenziale, pericoloso. Un rivolo di saliva gli colò lungo il
mento ricoperto da una ispida peluria.
Ivanhoe lo fissava. Stava vedendo, per la prima volta, la vera
natura di quell’uomo. Una natura folle e distorta, selvaggia e letale. Capitan
America riprese a parlare, con calma, in tono colloquiale, persino amichevole.
“Sono quello che sono. Sono la perfetta macchina per uccidere.
Questo volevano ed è per questo che è stato scelto quello che tu chiami un
pluriomicida cannibale. Non avevano bisogno di una timida mammoletta idealista:
ne avevano già avuta una e con i risultati che ben sai; io ero il candidato
ideale per essere l’arma ideale. Ho conosciuto la brutalità della guerra quando
ero un semplice essere umano. Ho provato tutta la bestiale crudeltà
dell’omicidio prima di avere questi miei poteri. Sono stato sbattuto su un campo
di battaglia, ho visto la morte, mi hanno strappato via la mia vita quando non
ero nessuno. Nessuno. Quando mi hanno trovato ero un catatonico ammasso di
carne a cui tutti era stato tolto. Eppure rimaneva dentro di me
quell’indefinibile fuoco che poteva fare la differenza tra me e tutti gli altri
soggetti su cui il trattamento è stato testato. Li odi? Perché mai? Volevano un
massacratore zelante ed efficiente. Eccomi qui!”
Ivanhoe non era un novellino e sapeva benissimo che quel discorso
aveva lo scopo di deconcentrarlo, in modo che Cap potesse prenderlo di sorpresa
anche se, era consapevole che il suo avversario lo stava facendo dicendo
semplicemente la verità. Il P.H.A.D.E. aveva fatto un errore a dotare un
individuo tanto spregevole di super poteri. Da quando era entrato a far parte
di quella piccola, disunita unità aveva continuato ad inoltrare rapporti ai
suoi superiori in cui esprimeva le sue perplessità riguardo Capitan America.
Quello che lo preoccupava veramente era che anche i suoi connazionali si
stavano facendo prendere dalla febbre “dei paraumani”. La popolazione mutante
britannica ed europea era destinata a crescere esponenzialmente per una
combinazione di fattori endemici, statistici e per la crescita di agenti
mutageni presenti nell’ambiente. Avere una forza di polizia interna in grado di
fronteggiare un’eventuale rivolta interna, o un esercito capace di respingere
un attacco di un esercito mutante o super umano e, se necessario, invadere
anche una nazione in cui fossero presenti “armi biologiche senzienti”, come le
aveva chiamate una volta in sua presenza il vice direttore del MI6.
Anche lui era un’arma biologica senziente, ne era consapevole.
Scartò di lato, evitando con un certo margine d’anticipo lo scudo
d’acciaio che, ruotando, andò a colpire una roccia poco distante. Il pericolo
non era di certo scampato. Quello non era il vero colpo ma solo quello che
serviva ad avvicinare l’arma al nemico. Il rimbalzo era quello che doveva
togliergli la vita. Ruotò su sé stesso mentre si dava uno slancio verso la
direzione opposta, colpendo con una doppia scarica dalle mani il disco che
stavolta, l’avrebbe sicuramente ucciso. Conosceva quella manovra. Aveva
studiato da vicino le tattiche usate dal Capitano e, lo conosceva abbastanza
bene da predire quello che avrebbe fatto. Colpì con il gomito lo sterno dello
scudiero a stelle e strisce, che gli si era fatto d’appresso rapidamente per
sorprenderlo mentre era intento a difendersi dal primo attacco.
Lo stupore di Cap era genuino. Fu costretto ad espellere tutto il
fiato che aveva in corpo e, quasi all’istante, seguirono una serie di colpi
rapidi. Riuscì ad impedirgli di colpire punti vitali ma non quelli dolorosi. Il
dolore era addestrato a sopportarlo ma era senza fiato e sentiva i polmoni
ardergli mentre continuava ad indietreggiare. Cadde da un pendio scosceso ma Ivanhoe
lo seguì, continuando a martellarlo con i pugni e il taglio della mano,
aiutandosi con poderose ginocchiate al fianco. Durò pochi metri ma sembrarono un’eternità
a Capitan America. Si piegò e rilassò in modo da ammortizzare la caduta e si
ritrovò a rotolare avvinghiato al britannico. Tentò una presa alla gola per
strangolarlo ma quello mise in atto una leva. Provò a fracassargli la tempia ma
dovette rinunciare per non scoprirsi e dargli così la possibilità di accecarlo.
Era anche un ottimo combattente corpo a corpo e questo, doveva prenderne atto,
era riuscito a tenerglielo ben nascosto. Ivanhoe non aveva rivelato tutte le
sue capacità, non appieno quanto meno.
“Bravo, io avrei fatto lo stesso al tuo posto.” Pensò Cap in un
angolo della sua mente, presto assorbita dallo scontro in corso.
Quasi
contemporaneamente, nei pressi del villaggio di Duang.
Rantolò, tentando disperatamente di togliersi una delle schegge di
bambù che gli attraversavano il corpo. Digrignò con rabbia i denti, mentre
lacrimava senza alcun controllo. Il sangue gocciolava dagli angoli della bocca,
finendo in terra con un ritmico battere.
“Io non mi agiterei così, se fossi in te.” Il Camaleonte alzò lo
sguardo, sorpreso. L’uomo che aveva conosciuto semplicemente con il nome di
maggiore stava lì, a pochi metri da lui che rideva sardonico. La sua figura
massiccia lo intimoriva sempre un po’, sin dai tempi in cui, dopo aver
sistemato la propria famiglia, era stato preso in custodia dagli ex datori di
lavoro di suo fratello.
Non sapeva che era un membro del partito comunista americano e che
per conto loro aveva trafugato decine di informazioni vitali per la sicurezza
nazionale. Eliminandolo aveva provocato le ire del K.G.B. e si era guadagnato
una sessione di tortura presso uno dei covi segreti dei russi negli U.S.A.
“Se vuoi uscirne, quando
“Maggiore, è un vero piacere sentire nuovamente la sua voce.”
Mentì spudoratamente, senza curarsi minimamente se avrebbe o meno irritato
l’uomo. Ormai sentiva di essere morto e di non avere più nulla da perdere.
“Non ne dubito, Camaleonte. Vedo che ti trovi in una situazione
piuttosto scabrosa.” Osservò con disprezzo.
“Ho passato momenti migliori.” Controbatté sarcastico il
Camaleonte.
“Probabilmente una di quelle schegge deve aver leso un organo
vitale. Potresti morire per emorragia interna. Forse dovrei lasciarti qui a
spegnerti lentamente. Del resto non mi sei mai piaciuto. Sei un assassino
depravato e ti avrei voluto ammazzare anni addietro ma allora ci servivi.
Adesso, arrivati a questo punto, non ci servi più.”
“Che ci fai qui?” Chiese l’americano tentando di vincere il
torpore che sentiva impossessarsi del suo corpo e della sua mente.
“Avevamo investito dei soldi nella realizzazione di quel generatore
di Campo di Forza ma i nostri amici cinesi hanno deciso di ignorarlo e di
inviarne un esemplare da testare qui in Indocina. Noi non eravamo d’accordo ma
questo già lo sai e sai anche che non volevamo che lo scienziato cinese
responsabile della sua realizzazione finisse nelle mani degli americani. Questo
però già lo sai, visto che ti abbiamo affidato la missione di farlo fuori e ti
abbiamo anche pagato per questo. Quello che non sai è che volevamo sincerarci
che il lavoro fosse stato ben fatto e così i miei capi hanno deciso di mandarmi
qui. Una volta arrivati abbiamo fatto una scoperta interessante: la tua unità
si stava massacrando da sola qui; dunque, arrivati a questo punto, direi che il
tuo lavoro nel P.H.A.D.E. è terminato e rimane un punto: che cosa farne di te?”
“Prendi quella dannata pistola che porti al fianco e facciamola
finita.” Sentenziò stanco il Camaleonte.
“Vorresti morire? Tu che per sopravvivere sei sempre stato pronto
a fare tutto, compreso eliminare i tuoi stessi cari? No, non ci credo. Ora fai
la parte dell’eroe ma sei solo un assassino psicopatico da quattro soldi.”
Sputò in terra.
Ascottville,
Texas -1 Aprile 1956 (10 anni prima degli eventi narrati).
Martin Guille era concentrato sulla palla che stava correndo
rapida in sua direzione. Sapeva che non poteva permettersi di sbagliare,
altrimenti la sua squadra avrebbe potuto dire addio al campionato estivo di
Ferdinando Valley. Si erano allenati tutti duramente e gli avevano dato la
possibilità di giocare nonostante non fosse certo un fenomeno come battitore.
Trasse un profondo respiro durante il quale il tempo sembrò rallentare e in cui
tutto il mondo era scivolato via. Rimaneva soltanto lui e quella maledetta
palla. Non voleva veramente essere lì. Si sentiva terribilmente in colpa per
questo, perché non riusciva a desiderare veramente di trovarsi lì e giocare.
Avrebbe voluto rimanersene chiuso in camera sua, con la faccia affondata nel
cuscino e piangere perché era l’unica cosa che gli sembrava avere un senso. Suo
padre invece avrebbe voluto poterlo vedere giocare ed era l’unico motivo per
cui si trovava lì. Però suo padre non era sugli spalti a vederlo giocare, come
invece avrebbe dovuto. Suo padre ormai era sotto terra e non avrebbe potuto
fare altro che starsene lì. Non lo avrebbe mai detto ad alta voce quel pensiero
e mai l’avrebbe confidato a nessun e men che mai a sua madre ma non riusciva
più a trarre conforto dalla religione. Le prediche della Domenica gli
sembravano sempre vuote e inappropriate. Passava il tempo seduto a sentire
parole che per lui non avevano più alcun significato. “Mio padre è morto.” Era
l’unica cosa che riusciva a pensare. Cacciare quei pensieri era difficile.
Mantenere l’attenzione sulla palla era una tortura per lui. Far finta che tutto
andava bene quando nulla era veramente a posto, quando ormai si sentiva come un
alieno tra i propri simili. Martin Guille aveva 13 anni e suo padre era morto.
Nulla avrebbe cambiato questa realtà.
Non c’erano stati grossi festeggiamenti per la vittoria della sua
squadra, né per lui che aveva battuto un fuori campo. Non era nello stile dei Wildcats
festeggiare prima dell’ultima partita del campionato. Odiava i Wildcats ed
odiava la sua scuola. Odiava ogni singolo alunno e professore. Suo padre era
partito per
La bicicletta sfrecciò tra le strade deserte di Ascottville, un
posto del tutto anonimo, un piccolo centro nato sull’onda della febbre per il
petrolio. Avrebbe tanto voluto che anche suo padre avesse fatto parte di quella
piccola e laboriosa comunità che lavorava ai pozzi, perché questo avrebbe
significato averlo ancora lì con lui. Gli mancava la sua risata, forte ed
energica. Gli mancava giocare a baseball con lui. Gli mancava anche quando lo
sgridava dopo averne combinata qualcuna delle sue. Ora invece era lui a dover
riprendere i fratelli più piccoli quando combinavano qualcosa. Ora era lui a
dover giocare con loro. Stringeva i denti tutti i giorni per far vedere agli
altri che andava tutto bene ma nulla andava bene. Dette un paio di colpi di
pedale e arrivò in vista di casa sua. La macchina della mamma non c’era e il
che significava che probabilmente era ancora al lavoro. Anche se fosse stata a
casa non sarebbe cambiato gran ché. Alla mamma non interessava più fare i
lavori di casa. Cucinavano lui e sua sorella Ann Lee, e facevano i turni per
lavare per terra, spolverare, pulire l’argenteria. Se papà fosse stato vivo,
avrebbe disapprovato. Non avrebbe mai permesso alla mamma di fare tutto quello
che faceva: vestirsi in modo indecente e passare tutto il tempo con quelle
pettegole del club del bridge; a Martin non dispiaceva certo che sua madre si
distraesse ma non poteva fuggire dalle proprie responsabilità facendone
completamente carico i figli più piccoli. Entrò in garage dove con cura ripose
la bici. Sistemò alcuni attrezzi che aveva preso la mattina per stringere la
ruota e dopo di ciò entrò in casa. “Eccomi, sono io!” Esclamò con finta
allegria. Nessuna risposta. Tommy, Cassy e Samantha erano ancora a scuola. Zio
Bruce sarebbe andato a prenderli. Ann Lee doveva essere a casa di zio e zia.
Dette un’occhiata al divano e s’avvide che la madre doveva aver nuovamente
dormito lì quella notte, preda dell’ennesima sbronza. Fece spallucce e andò a
rimettere ordine, come faceva sempre da un anno a quella parte. “Un’altra notte
brava.” Disse con rassegnato disprezzo. Nessun odore di cibo cucinato. Sapeva
che in cucina avrebbe trovato il solito biglietto di carta attaccato sul frigo:
“Surgelati nel lavabo e carne sulla stufa”; non li aspettava niente altro.
Anzi, probabilmente quella volta si era anche scordata di farlo. Era successo
una settimana prima, e una settimana prima ancora. Salì al piano di sopra. Non
voleva deprimersi più di quanto già non facesse. La sua camera, ordinata e
pulita come l’aveva lasciata, lo accolse con il suo tiepido abbraccio. Si
lasciò cadere sul letto dove, per qualche minuto, rimase con la faccia
affondata nel morbido cuscino. Pianse un po’. Non molto, solo qualche lagrima
per lasciare che il dolore se ne venisse fuori e smettesse di intasargli la
testa. Pensare era difficile quando era così. Si girò sulla schiena e si coprì
il viso con le mani, premendole con vigore come a voler cacciare via i raggi
del Sole che entravano dalla finestra.
Il rombo del motore lo fece scattare e, furtivo, si avvicinò al
vetro, curandosi di rimanere abbastanza defilato da far si che da fuori non lo
vedessero. Era il vecchio ford di Johns. Avrebbe riconosciuto quel rumore
ovunque e comunque. Una volta Johns veniva a casa sua per fare piccoli
lavoretti di giardinaggio e riparazione in cambio di qualche dollaro. Poi a suo
padre non era andata bene la storia di un tubo aggiustato a metà e aveva smesso
di chiamarlo. Johns era un omone grande e grosse, minaccioso con la sua testa
pelata e le grandi labbra da negro. Questo era: un grosso e silenzioso negro
che guardava di sottecchi tutti quanti e abitava nel borgo di Flora avenue
insieme agli altri negri. A Martin aveva sempre messo un po’ paura ma suo padre
lo aveva sempre preso in giro: “è una persona come le altre. Non devi aver
paura di lui solo perché è negro.” Gli diceva sempre.
“Ma tu non pensi che i negri siano diversi da noi?” Gli aveva
chiesto un giorno.
“No. Sono esseri umani come noi, anche se non credo sia semplice
la loro integrazione. Sono diversi perché hanno vissuto in modo diverso e
questo renderà loro difficile vivere secondo le nostre regole. Sono pieni di
rancore e il rancore è qualcosa che si smorza difficilmente. Però nessun uomo
dovrebbe essere considerato inferiore ad un altro. Dio ci ha creato tutti su
questa terra e tutti possiamo essere o buoni, o cattivi.”
Per Martin però Johns era cattivo. Quando discusse con il padre
per il tubo, vide un’occhiataccia che gli aveva lanciato. Era carica di odio e
disprezzo. Era sicuro che quando la notizia della morte di suo padre si era
diffusa, il negro avesse addirittura festeggiato. Aveva preso a fare quelle
visite con una certa, allarmante frequenza e quando l’aveva comunicato alla
madre, questa si era limitata ad ignorare la cosa. Zio Bruce le aveva chiesto
di denunciare il fatto alla polizia. Zio Bruce era molto più prudente ma lei
non aveva voluto sentire ragioni. Non avrebbe fatto la figura della stupida con
la polizia per le fantasie di un ragazzino.
Quando sentì aprirsi la porta dell’ingresso era l’una passata. Si
rigirò nel letto, quasi sperando di trovare tregua a quel tormento che gli
serrava lo stomaco come una morsa d’acciaio. “Bene, è rientrata la regina della
casa.” Disse in un sussurro risentito con finta soddisfazione. Aprì gli occhi e
si ritrovò a contemplare i suoi poster vagamente illuminati dalla luce della
luna. Babe Ruth, Joe Di Maggio, Eliott Ness in una vecchia immagine
pubblicitaria per una serie di spettacoli cinematografici riguardanti lui e i
suoi “Intoccabili”, Capitan America e Bucky, i suoi due preferiti.
Contraccambiò l’immutabile sorriso del ragazzo americano, il giovane alleato di
Capitan America, recitava uno slogan dell’epoca. Quante volte aveva giocato con
suo padre a Capitan America e Bucky. Suo padre era lo scudiero a stelle e
strisce e lui il suo giovane e coraggioso amico. Era un uomo buono suo padre.
Era un uomo per bene e gentile. Quando era vivo in casa c’era sempre ordine e
allegria. Quando era vivo gli piaceva il baseball, i polizieschi radiofonici e
il ritorno di suo padre a casa. Invece quei giorni erano lontani, così tanto
che parevano non essere esistiti mai. Si stropicciò gli occhi. La guerra di
Corea gli aveva portato via suo padre. Sapeva bene dove si trovasse
“Tuo padre si è comportato da vero eroe. Ha fatto il suo dovere di
sergente dell’Esercito degli Stati Uniti e di bravo americano. Nell’adempiervi,
ha salvato la vita dei suoi uomini. Sii sempre fiero di essere figlio di
qualcuno che è stato così coraggioso.” Così gli aveva detto un uomo in divisa
di mezza età, dalla mascella preminente e dallo sguardo d’acciaio. Forse se
fosse stato meno coraggioso, sarebbe ancora vivo. Si era tormentato spesso con
quella domanda. La porta si aprì improvvisamente andando a sbattere contro il
muro.
“Dove sei? Piccola serpe insidiosa…” Sibilò in malo modo la donna
che barcollante era entrata in camera sua.
“Ben tornata ma’. Cosa posso fare per te?” Chiese sprezzante. Sua
madre ringhiò indispettita mandando un’imprecazione al suo indirizzo.
“Quante volte devo dirti di non chiamarmi ma’! Esigo del rispetto
da te, giovanotto! Dove si trova Ann Lee?!”
“Dorme da Laura, la sua amica, quella con cui va a scuola alla Roosevelt
High. L’hai presente no? Una volta ci andavi per i colloqui con i professori.”
“Come ti permetti?! E chi ha dato il permesso a tua sorella di
andare a dormire fuori casa?! Chi?! Quella piccola intrigante! Voi lo fate
apposta, eh? Lo fate apposta ad irritarmi così! Vi piace vedermi diventare
rossa dalla collera, ignorando i miei ordini! Ma domani, quella cagnetta mi
sentirà…” Biascicava pietosamente le parole. Sua madre era ubriaca fradicia e
non capiva più nulla. L’unica cosa che gli dispiaceva era che i suoi fratellini
si sarebbero svegliati e avrebbero pianto per lo spavento. Gli dispiaceva
profondamente che dovessero subire tutto questo. La madre si trascinò via, la
sentì raggiungere la camera da letto gettandosi pesantemente sul letto. Doveva
essere stata con quel tipo che frequentava da quattro mesi a quella parte. Non
ne sapeva molto. L’aveva intravisto un paio di volte perché non si azzardava a
portarlo in casa. Aveva conservato ancora un briciolo di decenza e di senso del
pudore, ma sapeva che presto avrebbe perso nel fondo del bicchiere anche
quelli. Doveva averlo conosciuto così, bevendo in una delle squallide bettole
che ormai frequentava abitualmente.
Martin richiuse gli occhi, le lacrime che bagnavano il cuscino.
Chiuse gli occhi su quella realtà opprimente, per l’ultima volta.
La polizia era sgomenta ed incredula. Lo sceriffo Allen ne aveva
viste in vita sua. Aveva combattuto ad Iwo Jima e la morte non gli era nuova ma
quello che aveva di fronte era un brutale ed insensato atto di violenza.
La casa era immersa in un silenzio irreale. Gli schizzi di sangue
in cucina erano arrivati sino al soffitto e la ragazza, una bella e graziosa
quindicenne con il cranio fracassato stava lì, la testa reclinata in modo
innaturale nel lavello, le gambe oscenamente divaricate e i segni della
violenza subita ancora ben evidenti.
“L’ha violentata, ancora viva, dopo averle tappato la bocca. Ha
cercato di resistere graffiandolo, ma c’erano oltre sessanta chili di
differenza tra lei e il bastardo. Non c’era storia. Dopo essersi divertito le
ha spaccato la testa come un melone, utilizzando un corpo contundente. Un
martello di quelli che si usano per i lavori di casa. L’ha colpita con una
furia disumana, fracassandole gran parte del neuro cranio, dopo l’ha messa
così, spezzandole il collo. Crediamo che l’abbia violentata nuovamente, dopo
averla fatta fuori.” Disse Rutger dell’ufficio del Coroner.
“Cristo ogni potente, abbi pietà di noi peccatori.” Si limitò a
rispondere Allen segnandosi la fronte con la santa croce. Aveva una figlia di
quell’età. Una ragazzina altrettanto graziosa e vivace come forse lo era stata
quella Ann Lee. Una bambina che si era fermata a dormire a casa di un’altra
bambina quella notte e che, tornata a casa, aveva trovato il maniaco che le
aveva massacrato la famiglia incontrando la sua tragica, cruenta fine. Quel
corpo posizionato in modo tanto osceno, strideva con il sobrio arredamento di
quella casa così ordinaria. Si stropicciò gli occhi, quasi volesse riprendere
il controllo di sé, scacciando via quelle orribili visioni.
“Su non è meglio, Bob. La signora Guille è stata torturata e
violentata per ore. Le deve aver ucciso uno dei figli sotto gli occhi, tanto
per divertirsi un po’.”
“Per divertirsi un po’?!” Si lasciò scappare sgomento l’ufficiale
di polizia.
“Abbiamo a che fare con un assassino della peggiore risma. Sembra
che covasse del rancore nei confronti di questa famiglia da molto tempo. Una
volta veniva qui a fare dei lavoretti a pagamento ma ebbe un diverbio con il
padrone di casa che gli intimò di non farsi più vedere. Ieri sera ha deciso che
era ora di sistemare una questione che non lo faceva più dormire.”
“Guille? Si tratta di Kirk Guille?”
“Si signore, proprio lui. L’eroe di guerra.”
“Oh Signore Iddio. Come se questa storia non fosse già abbastanza
terribile. Quel poveraccio è morto in guerra, solo per lasciare la sua famiglia
in balia di un fottuto pazzo. Lui dove è?”
“Nella casa dei vicini. Un dottore lo sta visitando.”
“Povero piccolo, deve essere stato un inferno per lui.”
“Si è comportato con grande coraggio. Crediamo che il negro lo
volesse tenere per ultimo. Violenza carnale e torture anche per lui. Era il primogenito
dell’uomo che odiava con tutto sé stesso e aveva in serbo un numero speciale.
Invece il ragazzino si è liberato dalle corde, probabilmente non strette bene,
ed è riuscito a dare l’allarme.” Bob dette un’occhiata alla grande porta
finestra da cui si poteva vedere la casa dei vicini in questione.
Decise di terminare lo straziante sopralluogo e poi di dedicarsi
al ragazzo.
“Ciao Martin, io sono Robert Allen. Sono uno sceriffo e sono qui
per te. So che è un brutto momento,” si vergognò per quelle parole che
pronunciava. Gli sembravano così inadatte e fuori luogo rispetto alla tragedia
che aveva appena vissuto quel povero ragazzo che si trovava di fronte ma non
riusciva a trovarne di migliori. Si maledì per non esserne capace,” ma
vorremmo che tu venissi con noi in centrale e ci raccontassi tutto quanto per capire
meglio cosa è successo.”
“Lui dov’è?” Chiese seccamente. Bob fu preso alla sprovvista da
quella domanda pronunciata così freddamente, in tono tanto perentorio. Non
riuscì a trovare cosa migliore da fare che dirgli la verità:
“Lui è in centrale. Lo stanno interrogando ma è solo per stabilire
esattamente come sono andati i fatti. L’evidenza delle prove lo inchioda.”
“Come ha fatto con Cassy?” Lo disse con rabbia. Una rabbia
profonda, quasi animalesca che incuteva timore. Bob avrebbe voluto morire. Non
si riusciva a capacitare di aver usato proprio quel termine.
“Martin, ti prego, perdonami. Forse dovresti parlare con qualcuno
più adatto di me. Io non sono bravo con le parole ma credimi, sono dalla tua
parte. Vogliamo solo fare giustizia per vendicare i tuoi famigliari. Ti sei
salvato e sei riuscito a far venire la polizia. Sei stato molto coraggioso. Ti
chiedo di esserlo ancora e di terminare l’opera aiutandoci a portarlo in
tribunale e farlo condannare.”
“Lo metteranno sulla sedia elettrica?”
“Si.” Gli rispose francamente.
“Purtroppo questo non farà giustizia.”
“Come?”
“Potete ucciderlo ma questo non pareggerà i conti. Avrei dovuto
ammazzarlo io quel porco negro. Questo pareggerebbe i conti.”
Bob lo guardò sbigottito. Poi, ricordò cosa aveva appena passato.
Fu un gesto istintivo. Gli pose la grande mano callosa sulla guancia, e con
grande delicatezza lo carezzò.
“Purtroppo questo non puoi farlo, figliolo. Però puoi venire con
noi. Dopo, andrai da tuo zio Bruce che è stato informato dell’accaduto…”
“Zio Bruce non mi vuole.”
“Che dici?”
“Zio Bruce non mi vuole. Zio Bruce ogni tanto si occupava di noi
perché gli piaceva mia madre e voleva tenersela buona. Lo sanno tutti quanti.
Non ne vuole sapere niente di noi. Non gli era nemmeno simpatico il fratello,
mio padre. Non ho nessuno. Non ho più nessuno adesso. I musi gialli e i negri
mi hanno tolto tutto quanto. Se l’unica cosa che mi rimane è venire con lei per
far ammazzare quel cane, lo farò.”
Bob si sentì stringere il cuore. Non riusciva a pensare che quel
povero ragazzo sarebbe rimasto solo. Non era giusto. Non dopo tutto quello che
aveva dovuto subire dalla vita.
Era il 2 Aprile del 1962. Era una nottata insolitamente calda per
quel periodo dell’anno. Il Sally Club era ancora aperto e dentro c’erano ancora
clienti che consumavano i loro alcolici. Harold Johns stava guardando con i
suoi amici, Jared Jackson e George Samville l’ultimo numero di spogliarello. Si
trattava di una bella ragazza nera dal grande seno che si muoveva con grande
confidenza sul palco. Mandarono alcuni ululati di apprezzamento al suo
indirizzo mentre lei, stanca per la giornata di lavoro, non vedeva l’ora di
tornarsene a casa, visto che era mezza notte passata.
La porta si spalancò violentemente, finendo fuori dai cardini suo
pavimento. Il gruppetto dal volto coperto entrò nel locale, le armi in pugno,
il fare minaccioso. Erano cinque persone e il capo si distingueva perché il suo
cappuccio, anziché essere bianco, era rosso. I suoi movimenti erano sicuri ed i
suoi gesti autoritari. Arold non capì cosa stava succedendo finché quelli, dopo
essersi assicurati che nessuno fosse disposto a fare l’eroe, circondarono lui e
i suoi compagni.
“Che cazzo succede?!” Chiese a muso duro, cercando di mascherare
la paura.
“Harold Johnson, oggi è il giorno del giudizio per te. Sii uomo, e
seguici senza fare storie.” Intimò con freddezza l’uomo con il cappuccio rosso.
Aveva parlato con un tono basso ma si capiva trattarsi di qualcuno di molto
giovane. Anche la corporatura lo lasciava pensare e Harold, in un moto di
coraggio, vedendo che quello teneva la sua arma puntata verso il basso, tentò
di sorprenderlo. L’idea era quella di prendergli il fucile, puntarglielo al
mento e costringere quelle persone a lasciarlo in pace. Il piede di cappuccio
rosso scattò rapido come un serpente a sonagli e conficcandosi violentemente
nel ventre di Harold. Lui sputò saliva mista a sangue e ad alcuni residui di
cibo tornati su. Quando riaprì gli occhi era stesso dolorante sulle fredde assi
di legno del pavimento. La ballerina aveva urlato ma lui sentiva la sua voce
come se fosse distante mille miglia.
“Cosa volete da me?” Chiese stavolta in tono di supplica. Nessuna
risposta giunse. La squadra si limitò a prendere lui ed i suoi amici e portarli
fuori dal locale sotto gli occhi allibiti e impauriti degli altri avventori. Li
caricarono su un furgoncino, sempre sotto la autorevole guida di cappuccio
rosso, dopo avergli legato stretti i polsi e partirono verso quello che sarebbe
stato il teatro del rito che di lì a poco si sarebbe consumato.
Quando la camionetta arrivò a Flora Avenue, furono in molti ad
affacciarsi alle finestre attirati
dall’insistente rumore che produceva il rombo del motore del veicolo. Eppure
nessuno ebbe il coraggio di aprirle. Cappuccio rosso era soddisfatto di aver
richiamato con tanta facilità la loro attenzione. Quando dette ordine ai suoi
di far scendere i tre condannati, solo allora si aprì una finestra. Era quella
di casa Johns e la vedova Johns protese le braccia in avanti urlando il nome di
suo figlio. Dietro di lei stavano le due figlie, le sorelle minori di Harold.
Una, appena tredicenne, già visibilmente
incinta. Da sotto il suo cappuccio rosso non seppe trattenere una smorfia di
disprezzo.
“Oddio mio, mamma! Mamma aiuto! Mamma questi sono pazzi! Fai qualcosa,
te ne prego!” Harold aveva 22 anni compiuti. Ormai era un uomo. Un uomo che già
aveva alle spalle i suoi peccati. Per questo cappuccio rosso si era deciso a
prenderlo in cura.
“Non pensi che sia indecoroso il tuo comportamento? Non dovresti
mostrare più dignità davanti a loro?” Fece indicandoli con la canna del fucile.
“No! Per carità di Dio! Non fargli del male! Te ne prego!” Urlò
piangendo Harold.
“Finalmente mostri un po’ di interesse nei loro confronti. Credevo
non te ne importasse nulla. Bene, questo ti fa un po’ di onore.”
“Ma chi sei tu? Che vuoi da me?”
“Credi davvero che gli farò del male? Pensi che me la prenderò con
loro? Tre donne sole ed indifese, anche se negre? Questo pensi che farò? Quanti
anni hanno le tue sorelle? Tredici e otto? No. Non farò una cosa del genere,
stai tranquillo. Non sono come quel porco schifoso di tuo padre.”
Harold si irrigidì e lo fissò stupito. Era il 2 Aprile e solo
allora si rese conto di quale orribile anniversario ricorreva in quell’infausto
giorno.
“Chi sei?” Chiese nuovamente, con disperata insistenza.
“C’è davvero bisogno di chiedermelo?”
La madre di Harold corse intanto al telefono per chiamare la
polizia ma nessuno rispose alla sua chiamata, allora uscì di casa, in
vestaglia, chiamando a viva voce i vicini, invocandone l’aiuto. Nessuno però si
fece avanti. Fu rapidamente immobilizzata da due uomini dal cappuccio bianco
che la strattonarono facendola finire in terra.
“Nooooo!!! Mi hai detto che non le avresti fatto del male!”
“E non gliene farò. Voglio solo che se ne stia seduta a guardare.”
“Ti prego! Ti prego! Lascia stare mio figlio! Che cosa vuoi da
lui?! Prendi me al posto suo! Se hai un cuore, fallo!” Invocò la madre.
“Un cuore? Una volta lo avevo un cuore. Poi me lo hanno strappato.
Tuo marito invece un cuore non lo ha mai avuto, vero?”
La donna si portò una mano alla bocca, mentre piangeva disperata.
Harold Arold venne trascinato verso un palo della luce da due
degli amici di cappuccio rosso e legato con del filo di ferro. Lo strinsero
senza nessun riguardo, mentre un altro del commando, che imbracciava un fucile,
si assicurava che la madre non si avvicinasse più del dovuto.
Cappuccio rosso, Harold se ne rese conto solo allora, aveva in
mano una cassetta degli attrezzi che posò vicino i suoi piedi. La aprì, e ne
estrasse una grossa pinza.
“Oddio! ODDIO!!! Che vuoi farmi?!”
“Solo quello che il tuo merdoso padre ha fatto a tutta quanta la
mia famiglia.”
Afferrò senza ulteriori indugi il labbro inferiore. Quel grosso,
gonfio, umido labbro da negro che tanto lo disgustava. Poteva tollerare tante
cose ma non le loro labbra. Lo disgustavano. Lo riempivano di un profondo senso
di schifo. Erano il definitivo marchio che li distanziava dal suo mondo: il
mondo delle persone civili e per bene; quel mondo che gli era stato negato
dalla barbara mattanza di quella orribile notte.
Lo strinse con forza, facendolo tremare e sbraitare dal dolore e
poi, dopo averlo torto con crudele soddisfazione, strattonò improvvisamente.
Ovunque schizzi di sangue e salive. Urla animali che si levarono da quella
bocca martoriata e quelle disperata della madre, un attimo dopo in terra
svenuta, tra la polvere di quella strada percorsa tante volte.
Gli amici di Harold piangevano, impossibilitati a fare qualsiasi
cosa e raccomandavano l’anima a Dio, sicuri di essere prossima a renderla.
“Non lo reggi molto bene il dolore, eh? Credo che purtroppo non
reggerai a lungo. Credo che non durerai quanto avrei sperato.” Nuovamente le
pinze scattarono in avanti e stavolta afferrarono una delle guance. Harold
strabuzzò gli occhi, mentre un nuovo, lancinante orrore si abbatteva su di lui.
Bob Allen lanciò un’occhiata eloquente a Martin Guille, suo figlio
adottivo da sei anni. “Dove eri ieri sera?” Chiese per l’ennesima volta.
“Ero alle Red Rock Hills. Sono andato con
Patrick, John e Phil a bere qualche birra e sparare ai barattoli.” Ripeté
ancora una volta lui per tutta risposta, senza mostrare il minimo fastidio o
segno di spazientimento.
“Il vecchio Edmond,”gli spiegò il padre,”ha sentito
gli spari. Questo confermerebbe il tuo alibi, anche se c’è un particolare
importante: non vi ha visto; ha solo sentito gli spari. Qualcuno potrebbe dirsi
che anche una persona sola avrebbe potuto trovarsi lì.”
“Ma nessuno potrebbe dimostrarlo.”
“L’importante è che quando quelli di Houston e i Federali ti
chiameranno per interrogarti, tu mantenga la stessa freddezza e calma di
adesso. Non devi dar loro adito di pensare che tu stia mentendo.”
“E perché dovrei farlo? Le cose sono andate esattamente come ti ho
detto.” Insisté tranquillo Martin. Suo padre si lasciò scappare un sospiro.
“Figliolo, sappiamo tutte e due cosa è successo ieri sera. Il
figlio dell’uomo che ha ucciso la tua famiglia il 22 Aprile del 1956 è stato
assassinato. Prima di arderlo vivo, lo hanno torturato a morte, strappandogli
via buona parte della faccia, dei denti, la lingua e le palle. I suoi amici
sono stati freddati con un colpo alla testa. Tutti sospetteranno di te. Lo sai
bene. Quando questa storia sarà finita, dovrai andartene via di qui. Tornerai
al tuo reggimento e non farai più ritorno in questa città.”
“Parli come se fossi colpevole.”
“Parlo come un padre preoccupato per suo figlio.”
“Secondo te la brava gente di questo posto, si darà tanta pena per
uno sporco negro dedito al vizio?”
“No. Però non è nemmeno abituata ad assistere a qualcosa del
genere. Se fossi stato tu, e bada bene, dico se, probabilmente nessuno sarebbe
disposto a condannarti. Tutti sanno quello che hai passato e Harold era un poco
di buono, figlio di un pazzo psicopatico. Però le autorità, Martin, dovrebbero
fare il loro dovere ed arrestarti, se mai dovesse venire fuori qualcosa. Fin
tanto che sei qui, la gente continuerà a mormorare, a parlare, a fare
congetture e l’interesse generale per questa storia non si sgonfierà tanto
presto. Si parla di diritti dei negri. Nel Tennessee e nel Missouri sta
succedendo il finimondo. Al Governo sembrano impazziti e tutti quei maledetti
politicanti sembrano ansiosi di dichiararsi amici dei musi neri. No, non posso
permettere che il clamore continui. Non voglio che tu attiri l’attenzione. Te
lo ripeto, finita questa storia te ne andrai.”
Martin si alzò e, lentamente, si diresse verso le scale per salire
al piano superiore e andare in camera sua. Si bloccò al quinto gradino e
giratosi: “Tu credi che sia stato io, vero?”
“Credo che tu abbia sofferto tanto, figlio mio. Credo che tu stia
soffrendo ancora adesso. Credo che tu abbia visto e vissuto l’inferno e che
purtroppo, per quanto ti abbia amato, non sia riuscito a risanare la tua anima.
Pregherò per te, Martin. Voglio solo che tu sappia che se non ho potuto
salvarti quel giorno, ora non permetterò che nessuno ti faccia più del male. Ti
voglio bene, figliolo.”
“Lo so. Te ne voglio anche io. Te ne vorrò sempre e comunque.
Grazie per tutto quello che hai fatto per me in questi sei anni. Per me sei
davvero stato un secondo padre e questo sarai sempre.”
Quelle furono le ultime parole che Robert Allen e Martin Guille si
scambiarono riguardo quella storia. Dopo la partenza di Martin, ebbero poche
occasioni di parlarsi da soli ed evitavano sempre qualsiasi accenno a quella
storia. Bob aveva un brutto male e, nel 1964, Martin pianse la perdita di un
altro padre. Fu l’unica volta che tornò nella sua vecchia città quella: il
funerale di suo padre era un evento che meritava uno strappo alla regole; la
madre e i fratelli adottivi, li sentì quasi esclusivamente per lettera o al
telefono, per gli auguri delle feste. Lo pensavano sempre e gli mandavano
continuamente missive e cartoline che conservava con grande affetto. Però non
desiderava vederli spesso. Martin si era rivelato essere un buon marine. Buono
oltre la media degli altri suoi commilitoni. Buono come lo erano pochi. Quelli
che, come lui, erano così bravi, dovevano spesso svolgere incarichi poco piacevoli
e nonostante lui adempiesse ad essi con grande senso del dovere e per amore
della sua patria, non poteva far a meno di sentirsi in parte sporco. Temeva di
contaminare gli Allen con la sua sporcizia e loro, che tanto gli avevano dato
accogliendolo a braccia aperte nella propria casa, non se lo meritavano. Entrò
nel progetto P.H.A.D.E. accettando subito la proposta fattagli e la carovana
del tempo, lo portò fino a quel giorno, ancora una volta caldo e soffocante,
nella giungla ai confini tra Cambogia e Vietnam.
Fine episodio.
Grazie a tutti
quanti voi.
A chi legge le
mie storie, dando un senso a questo mio scrivere.
A chi mi
consiglia, suggerisce, critica, dandomi il coraggio, lo spunto per guardare da
nuove, inattese prospettive.
A chi corregge
questi miei lavori, con perizia e pazienza.
A chi mi da uno
spazio dove pubblicarli.
Alla mia
famiglia, al mio amore, a tutti quelli che mi amano e mi sono vicini con il
loro calore ed affetto.
Per contatti e
opinioni varie: spider_man2332@yahoo.com
See Ya in the
Pit!!! J